Di Luca Proietti Scorsoni
Perché quando scriviamo la parola “liberal-conservatorismo” il trattino è di troppo.
È una questione grammaticale, diciamo pure etimologica, ma anche di natura identitaria e concettuale. Voglio dire: il termine conservatore trova le proprie origini direttamente dall’idioma indoeuropeo e sta a significare, secondo una dotta ricostruzione portata avanti da Gennaro Sangiuliano, coloro che nelle tribù nomadi erano di guardia al fuoco, tenuto acceso per tenere lontano gli animali selvatici. Ora, a livello metaforico il fuoco rappresenta i valori.
Ergo, un conservatore è un custode di valori, prima fra tutti la libertà, quella che Don Chisciotte ricordava a Sancho Panza essere: “uno dei doni più preziosi che i cieli abbiano concesso agli uomini: i tesori tutti che si trovano in terra o che stanno ricoperti dal mare non le si possono eguagliare e per la libertà, come per l’onore, si può avventurare la vita”.
Già, la vita: diritto naturale alla pari della libertà individuale e della proprietà privata come insegnano il patriottismo costituzionale statunitense e, ancor prima, il giusnaturalismo che Benedetto XVI vide come tentativo della “Ratio” di entrare in comunione con la “Fides”.
Ma conservatorismo e liberalismo presentano un altro elemento in comune: entrambe queste dottrine culturali e politiche praticano un concetto molto caro a Roger Scruton, ovverosia il “buon senso” o, per dirla in altri termini, il senso del limite.
Da un lato, infatti, il pensiero liberale è uno strumento di difesa che l’individuo adopera per tutelarsi dai rischi esiziali del potere centrale. Il liberalismo pone degli argini, delinea un perimetro entro il quale – avrebbe sostenuto Rosmini – il singolo esercita la propria discrezionalità.
Altresì il conservatorismo è una sorta di monito necessario per ribadire che l’essere umano vive di imperfezioni e di fallimenti – è una canna pensante, per dirla come Pascal, impastata di fragilità e di vocazione all’eterno – e, per l’appunto, il suo tratto essenziale è demarcato dal divino o, come asserisce Kant nella Critica della ragion pratica, dalla legge morale e dal cielo stellato.
Ebbene, dalla consapevolezza della propria relatività, che si antepone al delirio dell’assoluto, nasce di fatto la bioetica, cioè quella disciplina morale stante a ricordare che “non tutto ciò che è scientificamente fattibile è anche eticamente lecito”.
Concludo facendo mie le parole di Marco Respinti sulla necessaria convergenza tra i liberali e i conservatori, cioè tra i pro market e i pro life e quindi tra la libertà, alla quale serve l’ordine per non impazzire, e l’ordine, il quale necessita della libertà per non soffocare.